Guidewire e la ricerca del giusto «purpose»

In un mondo pieno di incertezze, i consumatori percepiscono come sempre più rilevanti i bisogni di sicurezza e protezione. Ma sono confusi da un linguaggio non semplice, ricco di condizioni ed esclusioni. La diffidenza aumenta e il consumo assicurativo non cresce oltre la soglia delle coperture imposte dalla legge. Ecco perché le compagnie devono cambiare radicalmente approccio, come spiega il sales director in Italia della società leader mondiale nel settore del software assicurativo

In un mondo pieno di incertezze, i consumatori percepiscono come sempre più rilevanti i bisogni di sicurezza e protezione. Ma sono confusi da un linguaggio non semplice, ricco di condizioni ed esclusioni. La diffidenza aumenta e il consumo assicurativo non cresce oltre la soglia delle coperture imposte dalla legge. Ecco perché le compagnie devono cambiare radicalmente approccio, come spiega il sales director in Italia della società leader mondiale nel settore del software assicurativo

La pandemia, che ha colpito duro e ha colpito (quasi) ovunque. La nuova normalità che è ancora tutta da codificare. Le nuove tecnologie, che sono disruptive per definizione. Le insurtech che incalzano. Gli stili di vita che cambiano, assieme alle necessità dei consumatori.

Come ripartirà il settore assicurativo? E per andare dove? Lo abbiamo chiesto a Marco Burattino, uno che può vantare un’esperienza ventennale nel settore. La prima parte della sua carriera l’ha trascorsa in società di consulenza internazionali, dove si è occupato soprattutto di progetti di integrazione di sistemi It per importanti compagnie assicurative. Dal 2015 è sales director per l’Italia di Guidewire, leader mondiale nel settore del software assicurativo, e dal 2019, ricopre lo stesso ruolo anche per il mercato polacco.

«Il settore assicurativo», premette Burattino, «è inserito in uno scenario complessivo di mercato che oggi è spesso definito come una “economia di velocità”. E un’economia di velocità è caratterizzata da tre aspetti: incertezza, innovazione e densità (affollamento). Iniziamo dal primo aspetto. Il recente passato ci ha rapidamente insegnato che sono sempre di più le variabili ingovernabili che possono esercitare una influenza importante sul nostro modo di vivere e lavorare. La pandemia, le sempre più frequenti catastrofi naturali, i nuovi rischi del mondo digitale come ad esempio il cyber, hanno tutti in comune la capacità di imporre, improvvisamente, cambiamenti rilevanti sulle nostre attività. Di pari passo, è ormai evidente come l’innovazione tecnologica sia un fenomeno in costante accelerazione, che ha la capacità di ridefinire le regole del gioco e offrire, a chi riesce a stare al passo, sempre nuove opportunità per fare meglio il proprio lavoro e realizzare prodotti migliori. Quando invece parlo di densità, faccio riferimento alla compresenza dello scenario di crescita bassa di quasi tutte le economie occidentali unito a un contesto competitivo molto più affollato, anche per effetto di un mercato ormai davvero globalizzato».

In un’economia di velocità, quindi, vince chi riesce a reagire più rapidamente, chi è più versatile, chi riesce a migliorarsi, a rinnovarsi…

Se sei un’impresa in una economia di velocità, la vita è particolarmente dura, un po’ come quella del leone nella savana che va a caccia della gazzella: devi correre. Devi realizzare prodotti sempre migliori, devi essere scelto in mezzo a un numero di competitor più ampio rispetto al passato, e non ti puoi aspettare grossi livelli di crescita, anzi generalmente l’aggiunta di un nuovo cliente per te determina la perdita di un cliente per un tuo competitor. Analogamente, essere clienti/consumatori in un’economia di velocità dovrebbe essere meglio rispetto a fare la gazzella nella savana. La promessa di prodotti sempre migliori, continua innovazione e pluralità di alternative dovrebbe rendere ogni cliente più soddisfatto.  E invece, non è così. O almeno, esiste l’altro lato della medaglia. Sì, perché esistono anche prodotti migliori, ma è più difficile trovarli: confrontare i prodotti è diventato più difficile, perché le variabili per confrontarli aumentano e diventa più difficile capire cosa è meglio; farsi un’idea su qualsiasi avvenimento richiede mai come oggi una forte capacità di filtrare contenuti e fonti, tra fake news, faziosità e click baiting; e ancora, il confine tra promozione (pubblicità) e informazione è diventato molto più sfumato, tra influencer, recensioni e «mi piace».

E questo come si traduce nel rapporto con i clienti?

Il lato oscuro appena definito incide soprattutto a danno di un aspetto fondamentale della relazione tra impresa e cliente: la fiducia. Aumenta la diffidenza del cliente verso l’impresa, e quindi la propensione alla ricerca di alternative. Si sviluppa da qui un altro aspetto importante dell’economia di velocità, cioè la battaglia sul tempo di attenzione dei clienti. Le imprese investono in ogni settore cifre sempre più rilevanti per aumentare l’engagement dei propri clienti, per stimolarli a creare e mantenere nel tempo una relazione: più che essere valutati meglio delle alternative, ambiscono a controllare la relazione con il cliente e non fargli vedere le alternative. Ma se il cliente è diffidente, sarà comunque più difficile convincerlo, e quindi servirà più tempo per prendere una decisione. Ma il tempo del consumatore è a sua volta una risorsa sempre più scarsa: aumentano sempre le sollecitazioni, con nuovi bisogni che nascono, e nuovi prodotti e servizi a disposizione; si riducono le inefficienze della fruizione e i tempi di attesa, tra consegne a casa e servizi on demand, e quindi “aspettare” non è più ammesso; la durata utile dei prodotti si riduce, trainata dalla frenesia delle nuove mode che ogni giorno nascono in qualche parte del mercato globale, o indebolita artificialmente da fenomeni di obsolescenza accelerati.

Ricapitolando, il consumatore ha maggiori aspettative, non ha più tempo per informarsi, è diffidente, ed è sempre più bersagliato dalle imprese, che a loro volta “combattono” per ottenere la sua attenzione. Anche quello assicurativo?

Il consumatore assicurativo non è esente da queste sfide, anzi: in un mondo pieno di incertezze, in cui la paura viene spesso indotta per influenzare i comportamenti, percepisce come sempre più rilevanti i bisogni di sicurezza e protezione, ma è confuso da un linguaggio non semplice, ricco di condizioni ed esclusioni; la diffidenza lo rende restìo a incrementare il consumo assicurativo oltre la soglia delle coperture imposte dalla legge; è bersagliato quotidianamente da una serie di proposizioni che fa fatica a comparare e distinguere su un livello diverso dal prezzo. Se tutto questo ancora non bastasse, la distinzione tra le varie offerte è resa ancora più complicata in partenza dalla peculiare struttura distributiva del mercato in questione, in cui la distribuzione diretta funziona poco (si parlava di diffidenza?) e quella intermediata è affidata a terze parti indipendenti, con la conseguente complicazione derivante dal rischio di perdere chiarezza e incisività del messaggio tra cliente e compagnia come in una sorta di telefono senza fili.

Quale può essere la bussola per orientarsi in questa giungla? Come fa un’impresa a sopravvivere in un mercato in cui il cliente è più esigente, meno raggiungibile, più diffidente, e può perfino scegliere tra un numero maggiore di alternative? 

A mio parere occorre ribaltare l’approccio. Smetterla di combattere per far prevalere il proprio messaggio su quello degli altri, urlando o promettendo sempre di più, rispondendo «sì» a qualsiasi domanda, e dedicarsi alla costruzione di un proprio messaggio forte, preciso e coerente nel tempo. Un messaggio che sia presente in ogni prodotto offerto dall’impresa, talmente evidente che possa essere dato per scontato dal consumatore, senza neanche il bisogno di andare a verificare. Un messaggio che riesca a trascendere dalla caratteristica del prodotto/servizio che si offre, e che miri al cuore, non soltanto al cervello. Un messaggio in cui il consumatore possa riconoscersi, o non riconoscersi, in cui esprimere con chiarezza i propri valori e prendere posizione, assumendosi il rischio di perdere una parte della clientela potenziale, ma allo stesso tempo non lasciare dubbi sulla propria sincerità e ristabilire un rapporto di fiducia col cliente. Un nuovo approccio il cui obiettivo non è più offrire il prodotto migliore sul mercato, ma qualcosa che incarni e testimoni al meglio il sistema di valori alla base del messaggio dell’impresa, quelli per i quali l’impresa decide di schierarsi. Meglio ancora se questo messaggio possa anche essere preso a modello dal consumatore, al punto tale da farlo diventare sostenitore, oltre che acquirente. Il messaggio di cui stiamo parlando è quindi qualcosa che va oltre gli attributi del prodotto, ci parla anche dell’impresa, e descrive un sistema di valori in cui l’impresa crede e che essa decide di tutelare. Ha a che fare con le ambizioni e le finalità che l’impresa vuole perseguire. è un purpose, cioè la ragione stessa per cui l’impresa esiste.

Cioè?

Avere un purpose significa anzitutto schierarsi: trovare clienti anime gemelle, ma allo stesso tempo essere pronti a perdere quei clienti che non condividono gli stessi valori. Con la parte di clientela che condivide quei valori, si instaurerà un senso di lealtà: i consumatori non sceglieranno il brand solamente per il prodotto o il servizio, ma perché si è instaurato un legame emotivo forte. Questo tipo di legami sono i più difficili da costruire, ma sono anche i più solidi in assoluto. Un purpose può essere legato anche a tematiche etiche (i tempi che viviamo effettivamente sembrano suggerirlo), ma non credo questo sia un aspetto strettamente necessario. è tuttavia interessante rilevare come in un mercato come quello assicurativo, in cui l’etica della solidarietà è parte della definizione stessa del servizio offerto, il livello di diffidenza sia così alto: lo scorso novembre il Censis rilevava che nel rapporto premi danni su Pil, l’Italia si colloca sotto la metà dei paesi Ocse, molto distanti dalla media Ocse e su un trend in discesa rispetto a qualche anno fa. Cioè, non solo siamo bassi, ma pure con trend negativo. Un purpose non funziona solo con i clienti, ma anche al proprio interno, perché rende più comprensibile la strategia aziendale, aumenta il livello di partecipazione dei dipendenti, li responsabilizza e ne migliora la capacità di prendere decisioni.

E qual è il purpose di Guidewire?

Il concetto di purpose in Guidewire è presente fin dalla nascita, e credo sia alla base del successo che ha portato questa impresa a diventare leader globale nel mercato dei sistemi informativi gestionali per i player assicurativi. Guidewire nasce da un senso di profondo rispetto e ammirazione nei confronti del ruolo dell’assicuratore, nel riconoscimento del ruolo fondamentale che le assicurazioni hanno nella società di oggi, e nell’ambizione di fornire un servizio sempre migliore e «state of art» ai player del mercato assicurativo. A 20 anni dalla nascita, Guidewire non ha mai cambiato il suo focus sul mercato assicurativo danni, né il suo purpose, cioè rappresentare un punto di riferimento su cui le compagnie possono fare affidamento per affrontare le sfide del futuro e trarre vantaggio dalle nuove possibilità che l’innovazione rende disponibili. Un enabler il cui scopo è quello di sgravare le compagnie da attività non direttamente collegate al business assicurativo, consentendo loro di migliorare continuamente efficacia ed efficienza nella gestione operativa. Un interlocutore in ascolto dei problemi che le compagnie assicurative nel mondo devono affrontare, che investe massivamente in r&d con l’obiettivo di proporre soluzioni che possano aiutare a risolvere questi problemi, e lo fa con il senso di responsabilità del leader del mercato, che a fronte del privilegio di poter osservare tale mercato da vicino, si impegna per il suo progresso, permettendo che i ritrovati della tecnologia dell’informazione siano a disposizione dei processi di core business assicurativo.

E dunque quali sono le risposte che Guidewire dà ai problemi che le assicurazioni si trovano ad affrontare?

Venti anni fa questi problemi erano principalmente nella possibilità di industrializzare la gestione del core business assicurativo lungo l’intero ciclo di vita della relazione, dieci anni fa nella necessità di rendere digitale (omnicanale, misurabile, immateriale) l’assicurazione, e oggi in quella di utilizzare nuove armi (ad esempio l’intelligenza artificiale) per affrontare sfide sempre più complesse, accelerare i tempi di risposta e supportare la presa di decisioni. Guidewire è sempre stata pronta a raccogliere queste sfide e portarle all’interno di una piattaforma che sia, prima di ogni altra cosa, «ready for what’s next». è in quest’ottica di restare aggrappati al futuro che va osservata anche Guidewire Cloud, l’offerta software-as-a-service di Guidewire. Alla base, c’è infatti l’impegno a spostare considerevolmente l’equilibrio tra i concetti di manutenzione ed evoluzione, attraverso la promessa di due rilasci all’anno di nuove funzionalità a fronte dei precedenti intervalli di due o tre anni da una versione all’altra. Questa promessa non sarebbe semplicemente possibile senza limitare il set di tecnologie del passato supportate dalle proprie applicazioni: una maggiore velocità per arrivare al futuro richiede qualche rinuncia verso il passato, e quindi delle complessità aggiuntive. Anche questo fa parte del purpose, come dicevamo poco sopra.

Qual è la risposta del mercato assicurativo italiano?

Qualcosa si è mosso e si sta muovendo, anche se sinceramente è ancora presto. Anzitutto, diciamo che è all’interno del mercato assicurativo il primo esempio storico di quello che potrebbe essere un purpose: l’essere mutua. Purtroppo oggi questo concetto sembra restare un po’ in secondo piano: non vedo un grande sforzo nel porre l’accento su questa forma societaria, nello spiegarne i princìpi e nel calarli concretamente nel mondo di oggi, magari evolvendoli, adeguandoli al nostro quotidiano. Alcune compagnie si sono mosse con dei messaggi che richiamano il concetto di purpose, ma non trovo sinceramente casi nei quali tali messaggi si siano elevati a chiave di lettura dell’intera proposizione aziendale. E non vedo coraggio ed energia nel rappresentare volontariamente non soltanto il «cosa c’è dentro», ma anche il «cosa invece non c’è». è un percorso che è iniziato, ma sembra ancora più legato alla comunicazione, che all’essenza stessa delle imprese. Altre realtà riescono a trovare il proprio purpose in una dimensione di segmentazione, tipicamente geografica o locale, ma tali tipi di dimensione sottendono purpose non abbastanza forti. Altre ancora, vivendo e promuovendo con entusiasmo una cultura aziendale, forniscono una declinazione del purpose al proprio interno, che però non sempre è facile da trasferire nella relazione con il cliente.

In conclusione: qual è la ricetta per il successo che le compagnie d’assicurazione dovrebbero sempre tenere in mente?

Da direttore commerciale di Guidewire, l’esperienza di questi anni mi ha portato a contatto con una vasta maggioranza delle compagnie assicurative italiane. Non sono un venditore che crede che il proprio prodotto sia giusto per tutti i potenziali clienti; allo stesso tempo, quando si parla di software, la capacità di implementarlo con successo presso il cliente è parte integrante della qualità stessa del prodotto offerto. Per questo motivo, nel mio lavoro è molto importante valutare il “fit” tra il prodotto e il potenziale cliente, anche da un punto di vista culturale, non solo tecnico. Anzi, credo che il fit culturale sia anche più importante del fit tecnico (ricordando quanto detto sulla diffidenza). Proprio per questo, dovendo isolare una sola variabile fortemente correlata positivamente con i casi di successo nell’adozione di Guidewire, senza dubbio direi l’ambizione della compagnia. Laddove Guidewire rappresenta uno strumento per raggiungere un obiettivo chiaro e discontinuo, laddove l’obiettivo è condiviso e tutti i componenti della squadra sono coinvolti e responsabilizzati, laddove questo obiettivo chiaro, discontinuo e condiviso riveste un’effettiva priorità per l’evoluzione dell’azienda, allora un progetto di adozione di Guidewire può essere davvero un’àncora importante per “mettere a terra” la transizione di una intera organizzazione.

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